Romanzo di H. Beyle (in arte, Stendhal) pubblicato nel 1839.
Lo avevo letto al liceo (nel millennio scorso, quindi) e l’ho riletto con grande soddisfazione in questi pomeriggi piovosi sull’Altipiano.
Ovviamente l’adolescente che ero NON POTEVA che immedesimarsi nel protagonista Fabrizio, che fugge di casa a 17 anni per raggiungere Napoleone a Waterloo. ORA, analizzando meglio il personaggio, mi rendo conto che Fabrizio vale molto meno di quello che pensassi:
- non sono le idee di libertà ed eguaglianza a spingerlo; degli ideali della rivoluzione capisce poco o niente; è attratto solo da confusi sogni di gloria militare e (passata la sbornia) è ben lieto di approfittare dei privilegi del suo rango e della protezione dell’affascinante zia Gina
- mentre si prepara a diventare Arcivescovo frequenta donne di tutte le condizioni (in questo è molto democratico) e uccide un rivale geloso dei suoi successi; rimorso? macché…
- diventato predicatore alla moda (vengono a sentirlo come se andassero a teatro) svela però alla bella Clelia che tutta la sua eloquenza è solo il mezzo per poterla vedere ogni giorno e possibilmente ogni notte
Ciò rispecchia il modo di pensare dell’autore.
Stendhal, alla fine della sua avventurosa esistenza, era diventato un CINICO SNOB. Intuiva che il futuro era la democrazia americana, ma dichiarava di preferire il salotto di Talleyrand (pieno di arguzie e aristocratici sorrisetti) all’austerità di Washington.
Era letteralmente AFFASCINATO dalle piccole corti italiane (in cui trovava una continuità col tramontato mondo del ‘500) piene di intrighi, avvelenamenti, duelli per un puntiglio, principi, marchesi, duchi e duchesse, conti e contesse…
Lo affascinava soprattutto la sensualità delle donne italiane (le francesi gli sembravano fredde e bigotte). Per rendere l’idea ricordo il personaggio di Clelia: ha fatto voto di NON VEDERE più Fabrizio e mantiene fede al giuramento, nel senso che gli si concede solo di notte A LUCI SPENTE
Mi accorgo a questo punto che sto parlando come se tutti conoscessero già questo grande romanzo. Dunque sarà bene riassumere la TRAMA. Lo farò dopo le immagini (attenzione però: dovrò svelare il finale!).


Appartiene a nobile e antichissima famiglia lombarda (i Del Dongo sono in realtà i Borromeo) il giovane Fabrizio. Ma la sua nascita è irrimediabilmente marchiata: sua madre ha concesso le sue grazie a un valoroso soldato francese nel 1798. Ne consegue che Fabrizio non erediterà nulla dal ricchissimo zio e potrà sperare di far carriera solo come ecclesiastico.
Dopo uno sfortunato tentativo di partecipare alla gloria napoleonica, Fabrizio si rassegna: studia teologia a Napoli e si prepara a diventare arcivescovo di Parma. Nella sua arrampicata è appoggiato dalla zia (già due volte vedova) e dal cinico conte Mosca, ministro del principe Farnese (personaggio che allude scopertamente al duca Francesco IV di Modena) nonché amante della zia.
Dopo aver ucciso un attore, rivale in amore, viene condannato a 12 anni di carcere. Scarcerato grazie alle manovre del Conte (nel frattempo il Principe è stato avvelenato; da chi? indovina indovinello…) diventa il predicatore alla moda, in attesa di succedere al vecchio arcivescovo…
A questo punto, però, il romanzo era diventato troppo lungo. L’editore costrinse Stendhal a condensare tre anni in poche pagine. E a far morire (romanticamente, di dolore) i principali protagonisti.
L’unico superstite sarà il conte Mosca, triste ma ricchissimo (o, se preferite, ricchissimo ma triste).