Cabaret (1972)

Premessa assolutamente irrilevante.

Nelle commedie italiane degli ultimi anni c’è sempre una nonna che muore. Muore Valeria Fabrizi in NOTTE PRIMA DEGLI ESAMI, muore Piera Degli Esposti in GENITORI E FIGLI, muore Wilma DeAngelis in FEMMINE CONTRO MASCHI. Quale sarà il prossimo nonnicidio?

Fine della premessa assolutamente irrilevante.

CABARET è una pagina indimenticabile nella storia del cinema. Manca il lieto fine (fino a quel momento un film musicale DOVEVA finir bene) e anzi il film è pervaso da un senso cupo di fine-del-mondo.

Sally (Liza Minnelli) non sposerà il giovane Brian, anzi dichiara che rimarrà a Berlino finché l’alcool e la droga la distruggeranno. E su tutta la storia incombe la tragedia del nazismo.

Ma (in questa funerea cornice) lo spettatore resta incantato dalle canzoni e dai “numeri” del cabaret. Alcuni sono diventati classici, come “Money, money, money!” o “Willkommen in Cabaret”.

Un episodio mi ha particolarmente colpito. I protagonisti sostano in un’osteria di campagna e si sente cantare un giovane, una specie di boy scout. All’inizio viene inquadrata solo la faccia (dopo ci accorgeremo dell’uniforme della Hitlerjugend) e si percepisce solo la dolcezza della melodia; poi il lied coinvolge uno ad uno tutti i presenti che cantano in coro “Der morgige Tag ist mein”. Solo un vecchio dall’aria triste rimane seduto e silenzioso: lui sa che si comincia col cantare in coro e si finisce col marciare con un elmetto…

N.B. Se osservate il labiale, vi accorgete che il giovane canta in inglese “Tomorrow belongs to me”: agli americani riesce difficile ascoltare una canzone in una lingua straniera.

Ma nell’edizione italiana la canzone è doppiata in tedesco. Meno male: sarebbe stata una solenne bischerata sentire i tedeschi cantare in coro una canzone inglese.

Published in: on febbraio 15, 2011 at 7:35 PM  Comments (4)  
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Luci della città (1931)

Perfetta commistione di comicità e di sentimento, alterna in 89 minuti gag nella miglior tradizione dello slapstick e momenti di intensa commozione.

TRAMA ESSENZIALE. Un vagabondo senza-un-soldo si invaghisce di una povera fioraia cieca. Riesce (a prezzo del carcere) a procurarsi i bigliettoni per mandarla in Europa a ritrovare la vista. Lei torna guarita e lo riconosce toccandogli la mano.

Per dare un’idea della comicità allego video di un incontro di boxe (uno dei tentativi di far soldi). Chaplin era un perfezionista e girò all’infinito questo match, chiedendo consigli a molti veri pugili.

Quanto al sentimento, rivedetevi il toccante finale del film, accompagnato da “La violetera” un celebre tango spagnolo.

Aggiungo un paio di particolari.

  • la fioraia fu interpretata da Virginia Cherrill, che non era un’attrice; era una giovane aristocratica di Chicago e dopo City Lights non fece più nulla nel cinema
  • nel 1931 tutto il mondo aveva adottato il sonoro, ma Chaplin si ostinò a realizzare un film muto (dopo questo venne Tempi moderni, quasi totalmente muto) e il pubblico lo premiò: LUCI DELLA CITTA’ fu un successone al botteghino, anche se non ebbe alcun oscar (sui difficili rapporti tra Chaplin e l’establishment di Hollywood posterò in futuro).
Published in: on febbraio 4, 2011 at 7:11 PM  Comments (5)  
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il discorso del re

Ovvero, come realizzare un signor film senza

  • scene di sesso (in quasi due ore di proiezione c’è un solo bacio, un castissimo bacio tra Helena Bonham Carter e Colin Firth)
  • mostri spaziali, licantropi, vampiri, zombies & affini
  • star di fama mondiale (gran parte del pubblico italiano non ha mai sentito parlare di Tom Hooper, a malapena conoscono la Bonham Carter)
  • comici dialettali, storie di corna e torte-in-faccia
  • adolescenti e/o quarantenni in crisi ormonale

La crisi la conosce invece il povero Bertie, Alberto il Balbuziente, costretto dalla crisi della dinastia Windsor a improvvisarsi Re. Ma non occorre nutrire simpatie per l’istituzione monarchica per “tifare” con tutta l’anima per questo spaurito nicotinadipendente.

TUTTI NOI che ci sentiamo inadeguati, insicuri, ansiosi, sfortunati TIFIAMO PER TE, BERTIE, nel commovente finale.

Concludo lodando l’ottima prova degli attori.

Potrebbe scapparci una tripletta di oscar per Colin Firth (formidabile), Geoffrey Rush (si sforza di recitare male nel provino shakespeariano; e questa volta non deve nascondere l’accento australiano) e la Bonham-Carter (non ha moltissime battute, ma non ne spreca una).

Adesso che ci penso, Rush ha sfiorato l’Oscar in SHAKESPEARE IN LOVE (era Henslowe, l’impresario senza soldi). Altri attori che ho riconosciuto:

    • Timothy Spall nelle vesti di W. Churchill (nell’Amleto di Branagh era Rosencrantz, in Harry Potter era Peter Minus)
    • Michael Gambon (Albus Dumbledore, preside di Hogwarts), il vecchio Re che pronuncia la battuta chiave del film: “In passato ai sovrani bastava non cadere da cavallo, ora dobbiamo essere degli attori!”

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